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Presentazione all'ONU della Dichiarazione dei giovani per la pace nel Mediterraneo

Sarà presentata mercoledì 25 Giugno alle ore 13.15 alla Conference Room 9 UNHQ nel quartier generale delle Nazioni Unite a New York, la “Dichiarazione dei giovani per la pace nel Mediterraneo” firmata a Sassari l’8 novembre 2024 dai rappresentanti di ragazzi e ragazze di undici paesi mediterranei. La presentazione avverrà a cura di due ragazze di Sassari e di Istanbul, Cristina Chessa Colombino e Merve Şahin, nel corso del side-event “Empowering Young Persons for Peace in the Mediterranean” organizzato dalla rappresentanza permanente di Malta presso l’ONU e dalla Convenzione per i diritti nel Mediterraneo e, con la co-sponsorizzazione della rappresentanza italiana e della ong Un Ponte Per. La “Dichiarazione” è il frutto del lavoro di circa 250 ragazzi e ragazze tra i 16 e i 28 anni di undici paesi rivieraschi che, per iniziativa della Convenzione per i diritti nel Mediterraneo, si sono incontrati online rispondendo agli auspici della risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 2250/2015 “Giovani Pace Sicurezza” che chiede un maggior coinvolgimento dei giovani nei processi di pace. In un lavoro online che è durato più di sei mesi i ragazzi e le ragazze hanno discusso delle cause comuni delle guerre e analizzato i possibili rimedi. Tra le cause comuni individuate la competizione tra gli Stati per il territorio e le risorse, le divisioni etniche e religiose, la proliferazione degli armamenti e di culture violente , la disuguaglianza e la mancanza di diritti umani. 

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Tracce coloniali: ricordare per riconoscere, riconoscere per riparare

Pochi lo sanno, anche perché non ce n’è traccia nei libri di scuola, ma c’è stato un tempo in cui l’Italia deportava nelle piccole isole gli oppositori libici alla colonizzazione della loro terra e ve li lasciava morire. Le stesse isole in cui verranno poi confinati gli antifascisti, tra cui Antonio Gramsci. È una delle tante vergogne nascoste della storia coloniale dell’Italia prima liberale e poi fascista.È iniziato nel 1911 quando, dopo la sconfitta di Shara Shatt, l’occupante rispose con una “Caccia all’arabo” e l’esecuzione sommaria di migliaia di persone. Altre, forse 4000, furono frettolosamente imbarcate senza processo per Favignana, le Tremiti, Gaeta e per Ustica. Le deportazioni continuarono negli anni seguenti fino ad almeno il 1934.Non erano solo oppositori trovati con le armi in pugno o dissidenti, ma anche semplicemente persone influenti, professionisti o semplici passanti rastrellati a casaccio. L’Italia decapitava così la società tripolina nella speranza di impedire una resistenza che invece puntualmente riprese nel 1915 con la “grande rivolta araba”.Le condizioni di detenzione furono durissime, come testimoniato dalle poesie scritte durante la prigionia da Fadil al Shamani, poeta e partigiano di Tobruk deportato nel 1912. Almeno un terzo dei deportati ne morirono.Questa storia è una macchia nel passato del paese non solo per esserne stata responsabile, ma anche per averla occultata, come per i tanti altri crimini dell’impresa coloniale italiana in Libia, come in Etiopia, in Eritrea, in Somalia o nei Balcani.L’occultamento della memoria coloniale, oltre che un oltraggio alle vittime, è stato ed è una negazione del diritto degli italiani e delle italiane a conoscere la propria storia.Ma siccome la storia lascia tracce, c’è a Ustica un piccolo cimitero in cui i deportati libici morti in prigionia venivano seppelliti. E dimenticati.

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